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MAROCCO - Scendiamo, sbrighiamo le pratiche doganali, cambiamo la moneta e ci dirigiamo pochi chilometri a sud. Siamo ad Asilah. 3 italiani in un B&B gestito da una donna inglese la cui figlia è fidanzata con uno spagnolo in mezzo al Marocco. Cominciamo con una barzelletta?
Il mattino presto iniziamo a scendere velocemente verso Sud, prendendo confidenza con la strada, con il cibo,  e con la guida altrui.
Facciamo molta attenzione a non superare i 120 km/h, i controlli stradali sono ovunque, ma tutto considerato è una velocità di crociera soddisfacente, anche se non ci consente di comunicare attraverso gli interphono troppo disturbati dal fruscio generato dal vento.
Fino ad Agadir l’autostrada ci regala poche suggestioni ma infiniti pedaggi. Sorpassiamo diversi furgoni già visti sulla nave, sono carovane strapiene di suppellettili e di vita, come se portassero pezzi di mondo da parte a parte.
I campi lasciano spazio ad eucalipti e serre, la temperatura sale dolcemente, gli strati invernali delle tute da moto trovano posto nelle valigie. L’attenzione per il paesaggio ci distrae dai km percorsi e la yamaha resta a secco, Masi e il suo LC8 diventano carro attrezzi spingendomi fino al primo distributore.
Dopo Marrakech le montagne regalano lo spettacolo di millenni di sedimentazioni che creano linee ocra ripiegate su loro stesse.

Prima di partire avevamo preso un impegno: avremmo evitato di guidare al buio. Ci penso mentre i fari delle nostre moto per la seconda sera consecutiva fendono l'abisso che ci circonda.
L’autostrada finisce, e con lei anche il primo giorno di viaggio.

Ripartiamo da Agadir, il paesaggio si tinge di tutti i rossi riconoscibili, i paesi attraversati diventano sempre più piccoli e le strade sempre più godibili, troppo godibili, la prima multa, dietro espresso "suggerimento" del gendarme, viene negoziata. E’ importante imparare a conoscere gli usi locali.
Quando ti avvicini ad El Ayun gli eucalipti lasciano spazio alle acacie, le pecore ai dromedari e gli oued gonfi d’acqua a quelli in secca. I chilometri sono un unico rettilineo, inasprito dal sole del sahara e da un odore nauseante; si tratta di pozze di un nero raggrumato lasciate dai migliaia di camion che trasportano il pesce, e che non avendo refrigerazione lasciano il loro carico mortifero di ghiaccio sciolto e sangue.
Comincia a ripetersi il mantra dei posti di blocco e della distribuzione delle fiches di viaggio. Decine di controlli che iniziano nello stesso modo: “chi siete, da dove venite, dove andate, cosa trasportate…” Non siamo abbastanza audaci ed insolenti per rispondere come Troisi alle porte di Frittole. Ma tant’è, quasi tutti sono estremamente seri e poco inclini ai convenevoli di benvenuto. Alcuni ci lasciano andare in pochi minuti, altri ci fanno aprire le valigie per ispezionarle. L’impressione è che sia la "luna" del momento a determinare la meticolosità dei controlli.

Ad El Ayun i primi contrafforti sabbiosi ci guidano fino all’albergo scelto per la notte. Albergo completo. L’ONU ha occupato tutto. L’area è presidiata da decine e decine di militari e funzionari delle Nazioni Unite. Il confine etereo con il Sahara Occidentale e i rifugiati del Mali rendono delicata la gestione di questo angolo di mondo. Con il secondo albergo ci va meglio. Trattiamo il prezzo della stanza. Al mattino la prima sorpresa è il messaggio del receptionist: “qualcuno nella notte si è avvicinato alle moto. Controllatele.”
Mancano i guanti invernali di Marco, un giubbotto ad alta visibilità, una penna. Cose di poco conto… o forse no?

Siamo nel Polisario. Nessuno stato lo riconosce, non è presente sulle carte geopolitiche, ma siamo lì.
La tappa fino a Dakla è lunga.
Centri abitati sempre più rarefatti, temperatura sempre più calda, e una sensazione di spaesamento per la mancanza di punti di riferimento.
Una presenza importante comincia a farci compagnia, se ne sente l’odore a chilometri di distanza; è l’oceano, che da qui in poi diventerà un compagno costante, e che rappresenta l'unica fonte di sostentamento per gli accampamenti berberi posti lungo la costa.
Facciamo decine e decine di chilometri al suo fianco, accompagnati solo da sabbia e vento, ogni tanto ci sporgiamo oltre il baratro delle scogliere e perdiamo lo sguardo tra le carcasse di navi presenti.
La sensazione è di essere soli in mezzo al nulla, fino a quando d’improvviso una figura umana si staglia nella polvere del deserto. Alle volte con un piccolo bagaglio, alle volte senza nulla, ma sempre con l’aria di essere qualcuno che arriva da molto, molto lontano.
I posti di blocco ora sono avamposti nel nulla, a pattugliare pietre e vento in attesa di qualcosa che non capiamo. Per noi è il deserto dei Tartari.
Improvvisamente, come un'apparizione, incontriamo una sagoma piegata su un manubrio, a pedalare sotto 40 gradi di fatica in mezzo ad un punto imprecisato del deserto. Si chiama Ryoo, è un ragazzo giapponese partito un anno prima dalla Norvegia e destinato ad arrivare a Capo di Buona Speranza con la sua bici. Ci sentiamo granelli di sabbia spazzati via dalla sua limpida perseveranza. Proviamo una spontanea gratitudine. Gli lasciamo qualche frutto, ma andiamo via da lì infinitamente più ricchi.
L'ultimo tratto prima di Dakhla è un tuffo su una spiaggia senza fine. Ci opponiamo ostinatamente al vento, mentre a qualche centinaio di metri da noi, una girandola di kite surf ci accoglie in una delle località più conosciute da questo sport.

TORINO-DAKAR A/R

MAURITANIA - E poi arriva il giorno la prima "vera" dogana. Quella all'ingresso in Marocco è stata una formalità, quella tra Marocco e Mauritania è una scissione. Passarlo segna una svolta, si esce da un paese che insegue l'occidente e si entra in un altro che a tratti sembra evitarlo. Arriviamo alla dogana marocchina, ci sono 3 guardie armate: una in divisa blu, una in verde e una grigia, oltre a loro qualche ufficio, una tenda berbera e un'auto che ci precede è tutto ciò che vediamo. L'auto deve essere arrivata già da molto tempo; ha tutte le porte aperte, compresi baule e cofano e i gendarmi la stanno perquisendo. Passiamo la frontiera marocchina in poco tempo, ci avviciniamo a quella mauritana. Attraversiamo in pochi minuti la cosidetta "terra di nessuno", giusto il tempo di appoggiare nella sabbia la yamaha e siamo davanti alla porta mauritana. Il paesaggio naturale non cambia, il paesaggio umano è completamente diverso: le uniformi sono sostituiti da tuniche blu e turbanti, l'atteggiamento burocrate è sostituito da modi paramilitari, e i miliziani hanno occhiali da sole che rendono irriconoscibili i volti.
Entriamo in un ufficio. Ci accolgono un mitra appoggiato al muro e un uomo con i piedi nudi sulla scrivania, intento a riportare su un quadernone a quadretti i dati delle persone che passano il confine. Gli consegniamo i nostri passaporti quando improvvisamente entrano 2 militari sudati che con aria trafelata richiamano la sua attenzione. Si alza di scatto e corre fuori dalla porta. Non capiamo cosa stia succedendo nemmeno nel momento in cui, affacciandoci dall'uscio, vediamo una decina di uomini armati di pietre e bastoni gridare in direzione delle nostre moto parcheggiate. Ci si raggela il sangue.
Solo dopo qualche secondo un serpente striscia da sotto le nostre moto in direzione di un'auto parcheggiata, e la sassaiola, interrotta proprio per evitare i nostri mezzi, riprende immediatamente.
Il rettile spira. Noi respiriamo.
Riprendiamo il tragitto verso Noadibou. Affianchiamo il treno più lungo del mondo. 260 vagoni e un Km e mezzo di lunghezza. Ha con sè l'unica risorsa che l'entroterra è in grado di regalare, il ferro, e lo trasporta fino alla costa da dove partirà per tutto il mondo.
La Mauritania è una Repubblica Islamica, ciò vuol dire che l'Islam è la religione dello stato, che il capo di stato è musulmano e che la libertà di religione è limitata. Noi andiamo adagio.
Prima di entrare in città ci ferma una pattuglia, "è per il vostro bene" ci dice il militare. Gli crediamo.
Un problema alla moto di Marco ci costringe ad una riparazione notturna di emergenza: la ventola del motore non raffredda più e con un piccolo intervento riusciamo a renderla azionabile manualmente con i cavi.

Il giorno seguente ci rendiamo conto di aver fatto un errore enorme, non abbiamo cambiato la moneta in frontiera per la fretta, ed ora ci ritroviamo senza soldi. Le due banche presenti in città non riconoscono i circuiti internazionali e nemmeno l'albergo accetta le nostre carte di credito. Solo 3 ore dopo, grazie a Luis, pescatore ristoratore spagnolo, riusciremo ad uscire dall'impasse cambiando degli euro residui.
Ripartiamo con il vento di lato che allunga la sabbia sull'asfalto e che ci obbliga a restare piegati per ore ed ore. Ci fermiamo per fare rifornimento, dall'ultimo benzinaio sono passati 250 km. Dietro di noi c'è una jeep con un dromedario legato sul cassone posteriore. Urla, strepita e scalcia mentre 4 uomini stringono le corde che lo tengono seduto. Riprendiamo la strada. Fa caldo, ci fermiamo a fare una foto e la yamaha non riparte immediatamente, forse per il carburante (non esiste benzina verde). Facciamo l'unica cosa che possiamo fare, scendiamo dalla moto e ci fermiamo all'ombra. Non ci spostiamo di molto, siamo sotto uno dei tanti cartelli di pericolo. Il territorio è disseminato di mine e non è consigliabile allontanarsi dal manto stradale. Due o Tre minuti dopo si avvicina un anziano proveniente da un gruppo di capanne, ci chiede  se abbiamo bisogno di qualcosa e ci dice che finché staremo lì nella sua terra, saremo suoi ospite e verremo trattati come membri della sua famiglia.
La moto riparte e dopo diversi chilometri incontriamo un italiano che sta tornando dal Senegal. Parliamo con lui 5 minuti e ci ripete solo una cosa, "non passate da Rosso, non passate Rosso, non passate da Rosso". Sembra parecchio spaventato.
In serata siamo a Nouakchott. Non si direbbe essere la capitale, le strade sono le stesse, fatte di terra, di polvere, di buche e di bambini.

SENEGAL - Alle 5 siamo in piedi,  le moto sono di nuovo in ordine e noi realizziamo di essere al giro di boa. La sveglia è stata una canzone di Daniele Silvestri, “Le navi”.“Che salpino le navi,  si levino le ancora  e si gonfino le vele…”,  ricanto la prima frase da dentro il casco mentre usciamo dal fumo nero della città e ci indirizziamo verso il “lago rosa”. Attraversiamo zone rurali, capanne e lamiere da cui iniziano ad uscire studenti, cartelle e divise azzurre.
Arriviamo al lago. E’ rosa, è l’alba. Facciamo colazione insieme a centinaia di uccelli acquatici in un silenzio perfetto.
Ripartiamo e superiamo altri piccoli villaggi fino a che non riconquistiamo l’asfalto e riprendiamo la marcia lungo l’arteria dell’andata.
Torniamo a S. Louis. Facciamo una visita alla città, entriamo in un negozietto di tessuti e il negoziante ci saluta dicendoci che gli italiani sono i benvenuti perché sono “gli africani d’Europa”. La città è più animata di qualche sera fa, c’è la festa del cuscus, e andrà avanti quasi fino all’alba.
Ripartiamo verso la frontiera, ma questa volta abbiamo tutte le carte in regola per passare da Djama.
Questa frontiera è completamente diversa da quella attraversata all’andata: non c’è la chiatta, c’è un ponte a congiungere le due rive, non ci sono faccendieri avidi, ma semplici funzionari, e non ci vogliono 4 ore per attraversarla, ma ne basta una. Le altre 3 le spendiamo ad attraversare il parco di Djama e ad ammirare facoceri, caimani, varani e uccelli acquatici di ogni tipo.
Questa strada attraversa zone meno popolate e ci permette di evitare i numerosi controlli di polizia. Arriviamo a Nouackhott in serata, passando dalla zona portuale. Il via vai di mezzi è impressionante; camion, persone, mezzi da lavoro e polvere creano un unico grande cantiere da cui usciamo velocemente.
Il giorno dopo inizia una tappa conosciuta, in che rende tutto più complicato. La ritualità dei gesti unita alla “conoscenza” dei luoghi è un elemento che da ora in poi giocherà a nostro sfavore,  sarà come un libro già letto. Non ci sorprenderanno più le frasi ad effetto o i colpi di scena, a destarci , dovranno esserci elementi più profondi, meno epidermici. L’unica differenza è che non potremo lasciare a metà la lettura, in ogni caso, bello o brutto, arriveremo all’ultima pagina, tra 5000
km.
Quando arriviamo a Noadibou ci ritroviamo ad attraversare la città in 4, una moto nel frattempo si è accodata a noi.
Si tratta di un ragazzo inglese diretto in Sud Africa . Starà con noi a cena e mangeremo insieme del dromedario cucinato divinamente da Luis, il ristoratore conosciuto qualche giorno prima.
Il giorno dopo ci ripresentiamo alla frontiera con il Marocco, ma i controlli, visti da questo lato, sono molto più stringenti. Somiglia a tutte le frontiere in cui qualcuno, attraversandole, prova a migliorare la propria condizione, e qualcun altro, presidiandole,  cerca di farli desistere.
Ciò si traduce in ore di attesa, attesa di un gesto di indulgenza che faccia avanzare di pochi metri,  di gendarme in gendarme, fino a riprendere il deserto qualche ora o qualche giorno dopo, a seconda del proprio carico di disperazione.

MAROCCO - Arriviamo a Dakhla. Quando arrivi a Dakhla da nord sembra l’ultimo avamposto umano prima del nulla, quando ci arrivi da sud, sembra casa tua.
Prima di ripartire dobbiamo cambiare i soldi. Ci infiliamo nel posto migliore per farlo, nel bazar, dentro una baracca adibita a sartoria. Il “sarto” ci cambia 300 euro in pochi minuti…che nemmeno il Banco della Mauritania…
La tappa dopo è faticosa,  non per le decine di chilometri che diventano centinaia,  e nemmeno per la pianura sconfinata di sabbia che diventa una pianura sconfinata di roccia,  ma piuttosto per il vento, che diventa turbolenza,  poi folata, poi raffica e infine muro. La mia moto al massimo della sua velocità non tiene i 100 all’ora, e così sarà fino  ad El Ayun.
Partire da El Ayun in direzione di Agadir vuol dire attraversare il Parco di Khnifiss. E’ splendido con le sue spiagge, la laguna, le montagne brulle,  i calanchi, le scogliere e i cactus. Varrebbe la pena tornare fin qui solo per rivederlo.
Da qui in poi si sente il profumo di Europa.
Riprendiamo l’autostrada, la temperatura scende ed arriviamo ad Agadir.
La catena della moto di Marco comincia a preoccuparci, dà evidenti segni di cedimento ed ogni 100 km dobbiamo fermarci per tirarla.
Partiamo da Agadir senza una meta precisa, arriveremo fin dove riusciremo. Abbiamo notizie da casa che ci parlano di freddo intenso e nevicate in pianura, così decidiamo di accorciare i tempi in previsione di dover poi rallentare in Europa.
Giungiamo in serata a Tangeri, abbiamo preso acqua tutto il giorno, è buio e ci presentiamo in porto come degli studenti dopo il suono della campanella all’ingresso, convinti di essere in ritardo. Riusciamo a prendere la nave al volo, e senza nemmeno rendercene conto, salutiamo la costa marocchina e siamo a Tariffa.
Scendiamo dalla nave,  non sappiamo ancora dove andare a dormire, ma per adesso non ci interessa. Ci beviamo una birra, una di quelle che bevi quando sei completamente fradicio, stanco e impolverato, una di quelle da amarcord insomma.

EUROPA - La strada che segue la costa spagnola in direzione di Valencia è un tratto di strada molto suggestivo. C’è un sole che dà fiducia, ci sono 3 gradi centigradi che tengono svegli,  c’è la neve sulla Sierra Nevada che regala un orizzonte da cartolina e ci sono una serie di thè bolleti che scandiscono i nostri chilometri. Purtroppo ci sono anche due o 3 inconvenienti; il primo è la catena della moto che è finita e potrebbe rompersi da un momento all’altro,  il secondo è la mia gomma posteriore decisamente liscia e il terzo lo scopriamo una volta arrivati a Valencia, ed è la vite dello sfiato del filtro olio della mia moto che non tiene più. Abbiamo però la fortuna di conoscere Valencia, ed essendoci stati qualche anno prima durante la Transiberica, sappiamo dove andare a chiedere  aiuto. Un’officina yamaha che ci prende sotto la sua ala e in una notte sistema tutto, catena, olio e pneumatico.
Oggi entriamo in Francia, e tutto sembra procedere come previsto, con il freddo intenso e i thè corroboranti. Ad un tratto la yamaha comincia a singhiozzare, sbuffa fumo nero e ci costringe ad una sosta. Siamo in una piazzola, sta per fare buio e mancano circa 200 chilomentri a Montpellier. Siamo preoccupati, siamo stanchi e infreddoliti. Il meccanico di Torino di fiducia fa una diagnosi telefonica e ci dà 3 possibili soluzioni. A noi va bene la prima, liberiamo il filtro dell’aria dall’eccesso di olio che si era accumulato e la moto riprende a respirare come un’apneista fuori dal pelo dell’acqua. Ci fermiamo così come previsto dopo 200 km, sono le 22.30 e ci resta solo una cosa da fare, dormire.
L’ultimo giorno è un giorno che comincia con la neve e finisce con la neve. In mezzo ci siamo noi che procediamo ad un passo lento, a tratti scortati da qualche camion che, forse impietosito dalla situazione, ci copre le spalle.
E poi c’è l’arrivo, il solito arrivo, alla solita uscita autostradale, con il solito bagaglio di chilometri e con le solite facce sporche da naufraghi.

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